È l’India il futuro leader delle rinnovabili?

È successo durante l’assemblea generale di Reliance Industries Limited, fine agosto, quando il presidente Mukesh Ambani ha affermato che l’India può diventare una alternativa credibile” alla Cina, che solo nel 2020 ha prodotto il 75% dei pannelli solari arrivati in Europa , e che per quanto possa sembrare strano si conferma come leader  per la manifattura di tecnologie per le energie pulite: pannelli solari, batterie, elettrolizzatori per l’idrogeno, celle a combustibile. 

Pechino produce da sola circa l’80% dei pannelli solari e il 70% delle batterie agli ioni di litio di tutto il mondo, e il messaggio del Presidente sembra quantomeno ambizioso; e non dimentichiamo che Reliance, sede a Mumbai, è un conglomerato attivo soprattutto nella petrolchimica: tanti idrocarburi, niente energie rinnovabili.

Non dimentichiamo però neanche che Ambani è l’ottavo uomo più ricco del pianeta, secondo Forbes; forse per questo ha presentato i dettagli di un investimento nelle energie verdi da 9,4 miliardi di dollari che la sua compagnia aveva anticipato l’anno scorso, per diversificare il business e allinearsi alla transizione ecologica. I capitali verranno utilizzati per la costruzione di cinque grandi fabbriche nello stato del Gujarat, nell’India occidentale: la prima sarà dedicata ai pannelli fotovoltaici, la seconda ai sistemi di accumulo, la terza all’idrogeno da elettrolisi, la quarta alle celle a combustibile e l’ultima all’elettronica di potenza (per collegare gli impianti rinnovabili alla rete di trasmissione elettrica). Entreranno in funzione tra il 2023, il 2024 e il 2025.

Un piano che non dispiace agli Stati Uniti, che sembrano seriamente intenzionati a portare – o riportare – in America la manifattura di pannelli solari, turbine eoliche e batterie, distaccandosi progressivamente dalla Cina e considerando così l’India un’ottima sostituta. Il primo passo in questa direzione era stato fatto a fine 2021, quando l’agenzia governativa DFC aveva annunciato un prestito fino a 500 milioni di dollari a un’azienda americana, First Solar, per aprire uno stabilimento di dispositivi solari al tellururo di cadmio (alternativa al silicio) sul suolo indiano.

Dunque, India che non sia soltanto “fabbrica del mondo” per le clean tech ma anche di “elettrostato”. Di esportatrice, cioè, di energia rinnovabile nella forma di elettricità e di idrogeno.

Nuova Delhi può sfruttare la sua vasta popolazione, il basso costo del lavoro, le vantaggiose tariffe di generazione solare e i timori occidentali di dipendenza dalla Cina per provare a evolvere in un grosso polo manifatturiero alternativo alla Repubblica popolare. Attualmente dispone di capacità produttiva di celle e moduli fotovoltaici per 15 gigawatt (GW), e altri 50 GW dovrebbero aggiungersi presto (anche se la sola Pechino supera i 360 GW). Quanto alle ambizioni di esportazione energetica, per realizzarle dovrà prima costruire infrastrutture di interconnessione con gli altri paesi d’Asia: la Green Grids Initiative annunciata alla Cop26, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, assieme al Regno Unito muove proprio in questa direzione.

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